Dafne di Federico Bondi al cinema

0

Quello della disabilità, al cinema, è da sempre terreno scivoloso, irto di insidie, necessitante di uno sguardo che tenga insieme rigore cinematografico, realismo, rispetto per i temi trattati e per coloro che li vivono. In questo senso, c’era curiosità per un film come Dafne, già presentato con successo nel corso dell’ultima Berlinale, e ora approdato in sala, in concomitanza con la Giornata Mondiale della Sindrome di Down. Un’opera, quella di Federico Bondi, che vede nel ruolo principale un’attrice lei stessa portatrice di tale condizione, la sorprendente Carolina Raspanti.

La Raspanti è la Dafne del titolo, trentacinquenne Down impiegata in un supermercato, circondata dall’affetto dei familiari e dall’amicizia e stima dei colleghi. Quando, improvvisamente, sua madre viene a mancare, Dafne si trova a dover far fronte al lutto praticamente da sola, dal momento che suo padre si è chiuso in una depressione quasi impenetrabile. Con la forza di volontà e l’ottimismo che la contraddistinguono, la ragazza convincerà il genitore a mettersi in viaggio verso il paese natale della donna, per una “vacanza” che rinsalderà il rapporto tra i due.

Tra i tanti registri possibili, per affrontare una storia come quella di Dafne e di suo padre, Bondi (al suo secondo lungometraggio) sceglie quello più semplice ed efficace: non ci sono l’onirismo e la trasfigurazione lirica di un film come L’ottavo giorno – tra i punti di riferimento per il filone – ma un quieto realismo, che quasi ruba ai due protagonisti pezzi di quotidianità. Una scelta che entra nel mondo di Dafne e della sua famiglia in punta di piedi, ritraendo una parte di un percorso di vita, che casualmente coincide con una svolta fondamentale – quella del lutto e della perdita.

La regia limita gli interventi diretti nella tessitura della storia, resta attaccata ai suoi due protagonisti senza cercare scorciatoie per favorire l’empatia, si fa da parte per lasciar parlare i volti e i corpi della Raspanti e di Antonio Piovanelli – da par suo parimenti efficace e intenso. Il senso della loro vicenda e già lì, sullo schermo, filtrato attraverso i loro sguardi, attraverso la vulcanica loquacità della ragazza, attraverso i non detti dell’uomo, la voglia inespressa di mollare e il contagio – benvenuto, diremmo persino benedetto – della concreta positività espressa dalla protagonista.

Trovatosi ad affrontare una delle diversità/disabilità tuttora più oggetto di stereotipi – e di conseguente, inespresso stigma – Bondi evita qualsiasi enfasi, qualsiasi artificio che possa in qualche modo “pilotare” l’atteggiamento dello spettatore verso la sua protagonista. Dafne è lì, sullo schermo, la forza della sua personalità – che è la stessa della sua interprete, a detta del regista del tutto sovrapponibile al personaggio – parla e si esprime per lei; lo fa in modo non dissimile da quanto accade per la figura di suo padre, pur più scritta e “pensata”. Due vie possibili a due personaggi, ognuna coerente con la sensibilità del suo interprete.

Il risultato è un sorprendente saggio su come la semplicità e la linearità, a volte, possano rivelarsi carta vincente per il racconto cinematografico. Qualsiasi artificio retorico avrebbe guastato la forza vitale del racconto di Dafne, la limpida capacità della sua interprete di esprimere un mondo, illuminando e nutrendo tanto le prove dei suoi comprimari, quanto la stessa materia della storia. Una capacità di entrare in risonanza con l’ambiente – particolarmente indovinate le location, specie quelle rurali della seconda parte – che sorregge e dà forza a un film prezioso, favorita dall’intelligente approccio di una regia che registra, organizza, ma mai invade.

Marco Minniti

Nessun commento