Sculture e dipinti di alcuni maestri italiani degli anni Venti e Trenta del ‘900 accostati ai loro scritti. Un intreccio inedito di forme, colori e linguaggi per illustrare la ricchezza e la complessità dei percorsi di ogni artista e il panorama vasto e sfaccettato dell’arte italiana della prima metà del secolo. Il tutto in visione alla Galleria d’Arte Moderna di Via Crispi a Roma fino al 1 ottobre.
Sironi, Martini, Ferrazzi, de Chirico, Savinio, Carrà, Soffici, Rosai, Campigli, Martini, Pirandello e Scipione, erano maestri del pennello, ma sapevano usare bene anche la penna gli artisti. Tutti questi maestri del Novecento italiano degli anni Venti e Trenta, sono presenti nella mostra “Stanze d’artista Capolavori del ‘900 italiano” alla Galleria d’Arte Moderna di Via Crispi a Roma fino al primo ottobre 2017, promossa dalla Sovrintendenza Capitolina e curata da Maria Catalano e Federica Pirani.
E’ una mostra bella ed originale. E non potrebbe essere altrimenti quanto a qualità delle opere avendo per protagonisti alcuni fra gli autori più rappresentativi dell’arte italiana della prima metà del secolo. L’originalità si lega all’idea di accostare ai dipinti, alle sculture, alla grafica di ognuno un florilegio dei propri scritti tratti da diari, lettere, saggi teorici che mettono a nudo il pensiero, i sentimenti, le motivazioni profonde che sono a base delle loro creazioni. Una doppia lettura, dunque, quella che s’impone al visitatore, che oltre ai pannelli esplicativi che bene o male accompagnano sempre un’esposizione, riportano le parole scritte dagli stessi autori delle opere.
Un commento critico dal di dentro che è confessione intima, ma anche implicitamente messaggio pubblico, rivolto a chi legge. Se a ciò si aggiunge che fra di loro vi erano persone di grande preparazione formale, di raffinata cultura e acume critico, gente che non si limitava a dipingere, ma che come Alberto Savinio era scrittore, musicista, scenografo, regista teatrale. O che aveva frequentazioni con intellettuali e conosceva il mondo. Massimo Campigli scriveva sul Corriere della Sera, Carlo Carrà pubblicava saggi critici, de Chirico romanzi. Date queste premesse, una mostra in cui arte e parola intessono inediti dialoghi suscita sicuramente interesse.
“L’influenza che subii più a lungo fu quella dell’arte etrusca che nel 1928 diede una svolta alla mia pittura”, scriveva Campigli e Carrà confessava che concepiva tradizione e modernità come “le due metà di una medesima sfera”. E a chi gli chiedeva se era un rivoluzionario o un tradizionalista rispondeva di essere “tutte e due le cose insieme”.
La rassegna che si snoda tra sale e salette lungo i tre livelli della GAM (uno dei musei comunali), è ospitata nell’ex convento delle Carmelitane Scalze, l’ultima e definitiva sede di una ricca collezione pubblica dalla storia travagliata. Nata nel 1883, comprende oltre tremila opere provenienti da manifestazioni tenutesi nella capitale. Come le mostre della Società degli Amatori e Cultori di Belle Arti, le Biennali, le mostre di Arte Marinara, di Arte Sacra, le Sindacali, le Quadriennali. Una collezione che offre la documentazione dell’arte e della cultura a Roma dall’ultimo quarto dell’Ottocento fino al secondo dopoguerra.
Presenta una sessantina di opere, alcune di Ardengo Soffici e Ottone Rosai esposte per la prima volta. Circa la metà sono di proprietà pubblica, le altre in prestito da rinomate raccolte private, fra cui la Galleria Carlo Virgilio, la Galleria Russo, Gian Enzo Sperone e una Galleria privata di Milano. Dalla Svizzera, da un’anonima Collezione privata, sono giunte a Roma ventisei opere.
L’esposizione si apre con uno dei capolavori di Via Crispi, Il Pastore di Arturo Martini, posto al centro della prima sala. Una terracotta a grandezza naturale dalla superfice scabra, con cui ottenne il primo premio per la scultura alla Prima Quadriennale di Roma, che l’artista donò al Governatorato della città. Dello stesso autore, di collezione privata, il Ritratto del Prof. Schwarz in bronzo. Martini divide la stanza con un altro grandissimo, Mario Sironi di cui sono esposti ben sei quadri. Fra questi un’opera che non si vedeva da quarant’anni Pandora del ‘24 e un capolavoro assoluto di grande potenza La famiglia del pastore, anch’essa presentata alla stessa Quadriennale del ’31, realizzata nel ’27. In essa l’artista mostra la sua concezione dello spazio e il suo modo d’intendere il destino dell’umanità. I rimandi vanno al passato, a Giotto, a Masaccio, ma anche al presente, al senso di solitudine e d’incertezza dell’uomo contemporaneo. Presente anche un inconfondibile Paesaggio urbano con gazometro su faesite del ’44.
Un’intera stanza ospita l’opera di Ferruccio Ferrazzi, personalità di grande rilievo culturale oltre che artistico, fu anche direttore della scuola del mosaico in Vaticano. In mostra Frammento di composizione, che allude al tema dell’anima e della conoscenza di se stessi, presentato alla Biennale romana accanto a La Nuda, frammento di un’opera più grande in cui appare al centro la moglie, la bella Horatia. Incantato dagli affreschi scoperti nella Villa dei Misteri di Pompei sperimenta l’encausto per i ritratti della figlia Ninetta piccola e La bella Ninetta. Allo stesso livello in una saletta con le pareti di un blu intenso il grande metafisico de Chirico con Combattimento di Gladiatori che venne esposto nella sala personale a lui riservata alla Seconda Quadriennale.
Gladiatori che hanno ben poco di guerresco, “classicità e mito, svuotati dei loro connotati di universalità, sono trasferiti in una dimensione personale onirica”. Accanto, del fratello Savinio Autunno, esposto alla Seconda Quadriennale, una splendida tempera su tela del ’34 che appartiene alla serie di ritratti e nature morte di gusto seicentesco e una ceramica smaltata del ’45-’46.
Al secondo piano, lungo il corridoio, a dominare è Carrà con le sue marine, i suoi essenziali paesaggi lacustri e quel Cancello rosso della sua villa in Versilia così solido, così potente. La sua opera è intercalata a quella dei fiorentini Soffici Marzo burrascoso, e Rosai Paese, con quei blocchi di case e quella sequela di cipressi tipicamente toscani. Parla di paesi e natura anche la Strada per Clusone di Arturo Tosi del ‘28.
Infine al terzo piano torna la grande scultura con Marino Marini. Frammento in terracotta, acquistato alla Quadriennale del ’31, un recupero dell’antico come risposta alla magniloquenza dell’arte ufficiale, la Bagnante accovacciata in peperino del ’34 e il Cavallo in bronzo del ‘39. C’è poi Campigli con Le spose dei marinai del ’34, esposto per la prima volta, anch’esso presentato alla Quadriennale, che appartiene alla maturità dell’artista con quelle figure arcaizzanti e ieratiche, come statue antiche.
Monografiche le ultime due sale. La prima dedicata a Fausto Pirandello con ben otto oli, quasi una personale dell’artista. In mostra Palestra, un olio su compensato del ’34-’35 esposto alla Quadriennale (col titolo Bagnanti), con i colori delle terre e i bianchi come punti di luce. Infine la saletta dalle pareti color malva incentrata su Scipione in cui il famosissimo Cardinal Decano del ’30 dalle mani insanguinate, presentato alla Seconda Quadriennale nella mostra postuma riservata all’artista, è messo a confronto con la prima versione del ’29 e la Testa del Cardinal Decano. Con Scipione sacro e profano, realtà e incubo si mescolano. Spettrale la sua visione di Roma, la sua cortigiana sotto il Cupolone e la sua Spina di Borgo destinata a scomparire sotto i colpi del piccone per l’apertura di Via della Conciliazione.
Laura Gigliotti