Intervista a Enzo Fileno Carabba autore di “Il digiunatore”

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La personalità, i prodigi e le vicende di Giovanni Succi avevano già affascinato Kafka che dedicò al più grande digiunatore di tutti i tempi un racconto, e stavolta colpiscono Enzo Fileno Carabba che a Succi, nato a Cesenatico nel 1850, un bambino forte e crebbe in una terra di mangiatori, dedica un romanzo biografico. Visum lo ha intervistato. 

Nato dalla sua maestria narrativa che mescola realtà storica e sociale e svela accadimenti mai narrati prima con “Il digiunatore”, Carabba, narratore, sceneggiatore, autore di libretti d’opera e di poesia, regala al lettore uno spaccato di vita e di esperienze sempre attuali, che fanno riflettere sul “oppa oba” il “troppa roba” detto da Giovanni ancora bambino, riferito all’abbondanza di cibo che non intendeva mangiare e sulle sue scelte.

 

Enzo, cosa ti ha spinto a scegliere di raccontare un personaggio come Succi?

“È una persona generosa. Risponde sempre se gli chiedo qualcosa. Ma prima di rispondere ascolta. Non è da tutti. Sono stato spinto a raccontare la sua vita, dalla bellezza delle sue avventure e dalla sua capacità di essere felice anche nelle avversità. Le due cose diventano una: le sue avventure sono esercizi di felicità. Oltre a essere un digiunatore era un esploratore delle possibilità umane. Giovanni Succi era sorretto dal potere magico della fiducia. Il personaggio ha una forza benefica che si trasmette a chi se ne occupa”.

Nel suo percorso ha incontrato importanti nomi del Novecento. Che ruolo storico-sociale ha avuto Succi in quel periodo? Quanto sono attuali il suo messaggio e la sua figura?

Giovanni Succi incontra o influenza molte persone che determineranno il sussegguirsi delle epoche. Charcot, Freud, Verdi, Lenin, Stlaney, Kafka.  Condiziona gli inizi del cinema fantastico, l’ipnotismo, il socialismo, il giornalismo, la psicanalisi, il positivismo. Battezza a suo modo personaggi non umani come il Canale di Suez e la Torre Eiffel. Fare qui l’elenco completo sarebbe troppo lungo. Ci vorrebbe un romanzo.  Attraverso di loro ci guarda e pone a noi una domanda cruciale: di cosa possiamo fare a meno per vivere meglio?”.

Com’è stato il tuo lavoro di ricerca?

Un documento è, per me, lo stimolo per una seduta spiritica narrativa. Non è quindi uno strumento per non sbagliare (non sbagliare è impossibile e vano), ma un trampolino per immaginare. A forza di rileggerlo si crea una compressione mentale che porta poi a vedere delle scene. Giovanni Succi fu una celebrità mondiale. I documenti abbondano. Molti me li ha forniti il mio amico Stefano de Martin. Sono numerosi anche gli autori a lui contemporanei che ne parlano o ne accennano senza spiegare chi fosse (non ce n’era bisogno): da Emilio Salgari a Mark Twain. Entrò perfino nel linguaggio, si diceva: ‘Non posso fare come il Succi’. Scienziati importanti lo studiarono e hanno lasciato relazioni dettagliate. C’erano cartoline che lo raffiguravano e fu messo in commercio tra l’altro un liquore che – sosteneva la pubblicità – era il suo misterioso elisir. Tuttavia, puoi studiare tutto questo senza afferrare l’essenziale. Rimane un personaggio enigmatico. Chi può dire la verità su un individuo straordinario? Nessuno, nemmeno lui”.

Digiunare assume anche il significato di rinunciare, di fare a meno non solo del cibo. Privarci, astenerci è una conquista?

Preferirei non usare parole come ‘rinuncia’ e ‘privazione’, che sembrano alludere a un rigore che mi è estraneo. Succi invece avrebbe potuto dire ‘più vivo di così non sarò mai’ (è un verso di Sandro Penna). Diciamo questo: è bello lasciar perdere ciò che ci fa male. Questa è, effettivamente, una conquista.  E riuscire a farlo non è ovvio. Tornando al cibo: grazie al digiuno (al suo particolare digiuno) Succi diventava più forte. Al ventesimo giorno poteva correre nove ore in montagna o duellare. Faceva anche esercizi di apnea (sospensione volontaria del respiro) e di controllo della temperatura corporea e del battito cardiaco. Non parlerei di rinuncia. Piuttosto di liberazione da un peso. L’argomento è delicato perché può avere implicazioni patologiche. Succi aveva evidentemente qualità fisiche non comuni e suggerisco di non imitarlo. O meglio: seguirne lo spirito adattandolo alle proprie caratteristiche personali”.

La felicità esiste ma non è sempre uguale, per questo è impossibile fornire una ricetta. Comunque la cosa sorprendente e significativa è che Succi era anche un grande mangiatore: quando terminava un digiuno banchettava. Molti andavano a vederlo proprio in questo momento, il banchetto finale. Penso sia un caso unico nella storia millenaria dei digiunatori. (Anche perché, di solito, se uno banchetta dopo un digiuno muore). Il grande digiunatore che è anche il grande mangiatore. Due simboli in una singola persona concreta”.

In una società basata sul consumismo e sull’apparenza a cosa bisognerebbe rinunciare e di cosa dobbiamo riappropriarci?

Quella di Succi è una storia bellissima e misteriosa. Ho cercato di non sciuparla opprimendola eccessivamente con le mie opinioni personali. Non c’è bisogno che sia io a dire che l’umanità ha mangiato troppo. Però lo penso. Tra l’altro quando mangi troppo poi, non entra più niente. Naturalmente stiamo parlando del cibo anche come metafora. C’è un famoso aneddoto in cui un professore universitario va dal maestro giapponese Nan-in per interrogarlo sullo zen. Il professore è così pieno di idee che gli pone molte domande. Nan-in gli offre un tè. Quando la tazza è piena continua a versare. Il tè trabocca. ‘La tazza è piena. Il tè non entra più’ dice il professore. “Come la tua testa” risponde Nan-in. ‘Se prima non la svuoti non c’entra nient’altro’”.

Succi e le donne. La nonna, la sorella, le compagne. Soprattutto il rapporto con la madre era basato sul silenzio. Il silenzio è un valore aggiunto?

Quando le persone parlano non sono tutte uguali. Persone diverse faranno discorsi diversi. Lo stesso vale per i silenzi. C’è silenzio e silenzio. Mi piace pensare che i silenzi migliori siano un modo per fare spazio, per ascoltare, per lasciar respirare la mente. E con lei anche il corpo. Giovanni Succi era anche un grande ascoltatore, capace di enorme concentrazione. Non parlo di quella concentrazione che ti fa aggrottare le ciglia e contrarre i muscoli del collo per lo sforzo di capire, ma di una concentrazione morbida, nata dal languore, dalla dolcezza, dall’abbandono e dalla disponibilità all’incontro con l’altro. Condizione che non può essere permanente. Alcuni non la raggiungono mai. Succi la raggiungeva proprio in certi momenti del digiuno”.

Annoiato dai dispiaceri e dalle miserie del caos europeo” che ha significato l’Africa pe Succi? E anche la sua casa a Cesenatico Ponente e il manicomio sono per lui luoghi dell’anima?

L’anima è figlia della geografia. Bella senz’anima, protagonista di una celebre canzone di Riccardo Cocciante, è senz’altro una ragazza sradicata, senza un luogo o più luoghi di riferimento. Quindi senz’anima. Il Succi invece era pieno di anime. Se c’è chi non ne ha neanche una, esisterà qualcuno che ne ha almeno due”.

La scoperta della bontà da parte di Succi in che modo è paragonabile al racconto della padellina magica di Capuana?

La bontà ha a che fare con la morale ma anche con il gusto. Al termine dei suoi digiuni, quando finalmente ricominciava a mangiare, Succi sentiva sapori meravigliosi, provava un piacere sovrannaturale. Luigi Capuana, suo contemporaneo, era un convinto scrittore realista. Poi fu preso da una ‘deliziosa allucinazione’ e con sua stessa sorpresa  scrisse fiabe bellissime, tra cui quella di una padellina magica, che dal nulla cucina piatti di bontà sovrumana (pochi: due mi sembra, ma irresistibili, anche questo è significativo). Ho immaginato, ma non l’ho scritto, che questa deliziosa allucinazione sia nata da un contatto telepatico con Succi”.

 

Era considerato forse egoista e un po’ sbruffone per il suo egocentrismo? In che senso Succi è stato anche un benefattore?

“Egoista e sbruffone non direi. Anzi. Si dice che Federico Fellini sapesse tirar fuori il meglio dalle persone che aveva davanti. Lo stesso vale per Succi. I suoi incontri lo confermano. Mai, neanche rinchiuso in manicomio e con un tubo in bocca, ha espresso risentimento o malevolenza. Era megalomane, ma non presuntuoso. Voglio spiegare meglio questa affermazione. Un mio amico tempo fa mi ha detto che, siccome lui pensa di testa sua, se dovesse essere operato vorrebbe restare sveglio e concordare col chirurgo, ogni mossa. Ecco, questo mi pare presuntuoso, visto che il mio amico non è un medico. Povero chirurgo! Succi era megalomane perché pensava di poter cambiare il futuro dell’umanità: in meglio. Ma non era presuntuoso, perché di fronte agli scienziati che studiavano le sue prodigiose qualità non pretendeva di saperne più di loro”.

Cristina Marra

 

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