Un tram che si chiama desiderio al teatro Quirino

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E’ attualmente in scena al Quirino di Roma lo spettacolo intitolato “Un tram che si chiama desiderio” con Mariangela D’Abbraccio che interpreta il ruolo di Blanche Dubois.

Blanche DuBois (una impegnatissima Mariangela D’Abbraccio che anche in questa sua fatica mostra tutta la sua napoletanità) è una donna tormentata e depressa, schiava dell’alcol e del sesso, che nasconde una forte inquietudine dietro un’apparenza elegante e sofisticata.

Blanche approda in casa della sorella Stella a New Orleans proveniente da una cittadina del Mississippi, Auriol, per trasferirvisi dopo che, a causa della sua vita dissennata ed anche sfortunata, ha perduto la proprietà di famiglia, che le è stata espropriata.

Per recarsi dalla sorella, Stella Kowalski, utilizza un tram, denominato “Desiderio“, che la conduce allo squallido appartamento nel quale sua sorella (Angela Ciaburri, molto, ma molto espressiva e bravissima nella parte) vive con il marito Stanley (un Daniele Pecci, burbero interprete di un personaggio rozzo, spaccone ma intelligente) che immediatamente mostra di non gradire la presenza di una cognata la  quale, secondo la legge americana, lo ha privato – in quanto marito di Stella – della comproprietà espropriatale.

La personalità sofisticata ostentata da Blanche (che tratta il cognato tenendolo a distanza affrontandolo senza confidenza con un freddissimo “lei“, diversamente da lui che le si rivolge con uno sprezzante “tu” ) si scontra, anche in maniera violenta, con Stanley che nel corso di tanti estenuanti e serrati dialoghi – forse troppi data la lunga durata dello spettacolo – tende ad allontanarla dalla casa, diversamente da Stella che, forte del naturale ed innato affetto verso la sorella, tende a giustificarla ed a farla restare in casa, in quanto conscia dello stato di depressione del quale è palesemente vittima.

Stanley Kowalski, il marito di Stella, è una forza incontrollabile della natura: primordiale, rozzo, brutale e sensuale, egli domina Stella in ogni modo, sia fisicamente che emotivamente, ma Stella tollera il suo comportamento primitivo perché è proprio ciò che in lui l’attrae di più.

 

L’arrivo di Blanche sconvolge l’appezzabile stato di dipendenza reciproca tra i due coniugi e la sua presenza è causa di continue liti, anche con gli accaniti giocatori di poker amici di Stanley che settimanalmente, si incontrano nel tugurio abitato dalla coppia. Uno di loro, Harold Mitchel, detto Mitch, sembra addirittura innamorasi di Blanche, che lo vede come una speranza di risalita nella sua disgraziata vita segnata anche dal suicidio del marito omosessuale: un ulteriore motivo di inimicizia con il cognato.

 

Tragica la conclusione dopo che Stanley arriverà a violentare Blanche provocandone la pazzia; l’occasione del compleanno della cognata costituirà per lui l’occasione per farle ulteriormente del male: malignamente le farà dono di un biglietto per un autobus che la porterà lontano dalla sua casa, all’interno della quale, nel frattempo, è annunciato l’arrivo di un bimbo frutto della relazione tra Stanley e Stella.

Pregiudizi, stupidità intellettuale, l’oppressività della famiglia che grava su tutto il dramma, costituiscono il filo conduttore del dramma che Tennesse Williams (Premio Pulitzer nel 1948) scrisse nel 1947 e che ha costituito il soggetto di una delle più celebri pellicole della cinematografia americana, dall’omonimo titolo, ed interpretato, nel 1951, da Vivien Leigh e Marlon Brando per la regia di Elia Kazan, che in accordo con lo stesso Williams, ne ridusse alcuni contenuti riferibili al tema della omosessualità.

La rozzezza e la brutalità di Stanley, oltre che i suoi atteggiamenti sensuali, sono adeguatamente interpretati da un molto in forma Daniele Pecci, mentre la protagonista Blanche, anch’essa adeguatamente interpretata da Marinagela D’Abbraccio, appare un tantino meno melodrammatica di quanto la stesura di Williams sembrerebbe prevedere.

Il complesso lavoro, in scena fino al 15 marzo prossimo, si mostra pregno di valori che ne confermano la statura iniziale, tutta basata su una feroce critica della società americana degli anni del dopoguerra, critica che la potenza di gestione del regista, Pier Luigi Pizzi, riesce molto chiaramente ad evidenziare.

La compressione del lavoro in un unico atto della durata di due ore e mezzo, non giova all’attenzione del pubblico, anche se i tre atti iniziali nei quali l’autore aveva diviso il dramma, avrebbero forse costituito motivo per una eccessiva diluizione nello svolgimento dell’apprezzabile lavoro che fruisce, inoltre, delle musiche di Matteo D’Amico vagamente inneggianti a quelle di George Ghershwin che precedono di una ventina d’anni la scrittura di “Un tram che si chiama desiderio”.

Tram, si narra, sul quale, vagando, Tennessee Williams partorì il dramma incentrato sul lato meno appariscente del “sogno americano” di quegli anni.

Andrea Gentili

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