E’ una lunga storia quella della narrativa gialla italiana, della sua nascita, evoluzione e contaminazione e solo Luca Crovi, grande esperto di letteratura di genere poteva raccontarla con la passione e la competenza che lo contraddistinguono. Visum l’ha intervistato.
“Storia del giallo italiano” (Marsilio- Carta Bianca) è una vera e propria indagine nel mondo della fiction letteraria nostrana che, dai suoi esordi ha riscontrato popolarità e consenso tra i lettori. Crovi dedica il volume a suo padre Raffaele “il padrino del giallo italiano”, a Tecla Dozio “la signora del giallo” e a Cesare De Michelis che gli ha chiesto di dare seguito a “Tutti i colori del giallo” pubblicato nel 2002.
Nasce così il volume in questi giorni in libreria con diciassette sezioni e micro-capitoli, che accompagnano il lettore in un viaggio nel tempo che però grazie alla magia dei libri, resta sempre attuale e presente e che comincia con i feuilletton e termina con gli ultimi detective letterari.
Luca, gli scrittori italiani di gialli offrono un itinerario geografico che copre tutto il territorio, anche il quadro dei loro protagonisti è variopinto?
“La storia del giallo italiano ha avuto fin dalle origini due caratteristiche: la regionalità e la socialità. Gli autori si sono preoccupati fin da De Marchi, Mastriani, Invernizio di mostrare il volto delle città e dei paesi e si sono basati quasi sempre su crimini realmente accaduti, mostrando l’evoluzione o l’involuzione della società italiana, il senso di ricerca della giustizia. Gli stessi due motori narrativi li troveremo poi in De Angelis, Sciascia, Gadda. Leggere i gialli italiani permette – sottolinea Crovi – di viaggiare nel nostro paese e conoscerne città paesaggi, usi e tradizioni, costumi e malcostumi”.
Ogni capitolo è introdotto da un corsivo, tutti insieme si possono leggere come una storia?
“L’idea era di scrivere dei minitesti che fossero da soli una ministoria del giallo. E partito tutto dall’introduzione all’ultimo capitolo e poi Annalisa Longega che mi ha seguito come redattrice mi ha detto: ‘ma perché non ne scrivi uno per ogni capitolo’. E voilà li ho preparati, credo che siano degli efficaci specchi riassuntivi che fanno venire voglia di affrontare i capitoli ma che sono anche una buona sintesi dei fenomeni raccontati”.
“Tutti i colori del giallo” si concludeva con i commissari sul piccolo schermo soprattutto interpretati da attori italiani, ma tratti da serialità straniere. Da anni Novanta si è invertita la rotta. Perché da Salvo Montalbano a Imma Tataranni tanto interesse per il genere da parte delle produzioni televisive?
“Le serie televisive hanno permesso ai personaggi nati su carta di trasformarsi in televisione. Le serie hanno permesso un’evoluzione e una trasformazione dei personaggi, spesso un loro cambiamento nel fisico ma in genere le ambientazioni e lo spirito dei romanzi originali sono stati rispettati. Nel mio ultimo saggio, ho dovuto togliere per ragioni di spazio il capitolo dedicato alla televisione ma anche quello sull’illustrazione, quello sul fumetto, quello sugli emuli di Sherlock Holmes e quello sulla radio. Chi ha la vecchia copia di Tutti i colori del giallo ne troverà le versioni non aggiornate. Ho dovuto non inserire questi capitoli perché negli ultimi anni la letteratura poliziesca si è sviluppata a dismisura e questo mi ha costretto ad aggiungere centinaia di autori nel testo”.
Come mai in Italia si è affermato un giallo di stampo provinciale?
“Lo stampo provinciale e provinciale è una derivazione dei Misteri. Il giallo in Italia nasce sull’onda del successo dei Misteri di Parigi ai quali si alterneranno i Misteri di Napoli, Palermo, Genova, g e che avranno molto successo. In realtà tutta la letteratura crime mondiale ha puntato sulle città e la loro identità che viene svelata attraverso i personaggi che le abitano: Sherlock Holmes indaga a Londra, Auguste Dupin a Parigi, Hercule Poirot fa il giro del mondo nelle sue avventure, Nero Wolfe è di stanza a New York. Raccontare poi la provincia italiana ha permesso di raccontarne le situazioni a rischio oltre che l’identità celato nelle piccole comunità”.
Napoli e Milano sono le due città-madre del genere made in Italy?
“Sicuramente per quantità di autori e di storie hanno sbaragliato la concorrenza. Tieni presente che sono le due città più illuministe d’Italia, quelle che hanno avuto più case editrici, più riviste, più intellettuali, più contatti internazionali letterari. Quindi è naturale che siano state le due più frequentate dai giallisti. D’altra parte sono anche due città musicali e tutte e due hanno il mare. E non sto scherzando, perché i Navigli a Milano le hanno permesso un’identità d’acqua che non è mai scomparsa anche quando li hanno interrati”.
Nel libro riporti la definizione di Sciascia che paragona il giallo a una gabbia “entro la quale si possono dire tantissime cose comprese la radiografia del mondo moderno”. Mi dai una tua definizione del giallo italiano? “Credo che non sia invecchiata quella che ne dava De Angelis: ‘il giallo è il frutto rosso sangue dell’epoca che stiamo vivendo’. E penso come lui che ‘se il romanzo poliziesco deve nascere anche da noi, ha da essere romanzo italiano, caratteristicamente nostro, luminosamente nostro. Metterci proprio noi a scriver storie poliziesche, con personaggi americani o inglesi, che si svolgono su un suolo straniero non potrà mai costituire esercitazione artistica, nonché arte. Raffazonatura, se mai. Pedissequa imitazione”.
“Tanto è vero che quando a scriver romanzi polizieschi si è messo uno scrittore di razza, come Alessandro Varaldo, ha dato anima a personaggi italiani, su suolo italiano. Ma può un romanzo così fatto, scritto e concepito da italiani, con tutti gli ingredienti nostrani, dare il brivido e togliere il sonno. Certamente, sì’. Direi che De Angelis, che spiegava anche che scrivere gialli fosse un modo moderno di far poesia, avesse capito e detto già tutto”.
Nel libro riporti episodi personali della tua formazione al genere, aneddoti e un quiz. Quanto è stato fondamentale tuo padre nella tua formazione e nella promozione del giallo nostrano?
“Mio padre si divertiva a farsi chiamare “Il padrino” del giallo italiano. Ha scoperto Vitali, Sclavi, Anselmi, Macchiavelli, Varesi, ha aperto alcune delle prime collane di giallo d’autore in Italia e con ‘Buon sangue italiano’ ha realizzato la prima antologia critica dedicata al genere. Ha lavorato a fianco di personaggi come Alberto Tedeschi, Oreste Del Buono, Marco Tropea, Laura Grimaldi, Tecla Dozio alla costruzione della credibilità letteraria e critica di un genere che ancora oggi il più letto in assoluta in tutto il mondo. Lo ha fatto in maniera divertita e complice e devo dirti che il fatto che sia stato lui a rinnovare il contratto di Georges Simenon con Mondadori dopo la Guerra è una delle cose di cui andava più fiero. Ha letto gialli per tutta la vita e si è divertito a scoprire autori, è sempre stato molto contagioso”.
“E’ buffo – continua – perché quando scrisse per Piemme ‘L’indagine di via Rapallo’ che è la sua unica opera di suspense firmata con il suo nome (ce ne sono infatti alcune siglate con pseudonimo) si documentò sul mondo degli idraulici usando come suo consulente il mio amico Alfredo Rusconi. Gli serviva un trucco per entrare nelle case degli indagati senza usare la vera identità di poliziotto del protagonista. E la storia è ispirata a un fatto di cronaca personale che lo aveva sconvolto. Per un po’ aveva tenuto sul balcone delle borse che contenevano i ritagli di giornale del suo archivio. L’amministratore del nostro condominio sostenne che la presenza di quella carta sul balcone metteva a rischio la sicurezza della casa e fece buttare tutto dalla signora delle pulizie che si trovò alla porta di casa nostra. Mio padre che aveva depositato la carta per pochi giorni là in attesa di ordinare la sua sala, perse in pochi minuti tutto il suo archivio stampa. Per questo ne ‘L’indagine di via Rapallo’, la vittima per cui nessuno piange, è l’amministratore di un condominio. Anche Raffaele Crovi da bravo giallista italiano si è ispirato alla realtà”.
Cristina Marra