Elena Sofia Ricci è la protagonista della pièce Vetri Rotti di Arthur Miller andata in scena al teatro Eliseo di Roma, ora in tourneè, con la regia di Armando Pugliese. Visum l’ha incontrata.
“Il titolo è da ricollegare alla Notte dei cristalli, dato dagli stessi nazisti alle rotture delle vetrine di negozi da un blitz da loro condotto in Germania, nel novembre del 1938, ma il richiamo del titolo è anche riferito al progressivo incrinarsi del rapporto matrimoniale dei protagonisti, così come avviene da pensare al rituale della rottura del bicchiere nel matrimonio ebraico in memoria della distruzione del tempio di Gerusalemme”.
“Non è stato facile. Se avessi scoperto nella mia libreria quel libro vent’anni fa non sarei stata pronta ad interpretare il personaggio di Sylvia. Ero troppo giovane. E’ stato un bene averlo scoperto poco tempo fa – sottolinea l’attrice – perché il personaggio ora è giusto per la mia interpretazione. Oggi alla mia età è possibile guardare a fondo un testo del genere. C’è un nucleo che riguarda tutti noi, il tema della paralisi, dell’impotenza, della paura che ci paralizza e non ci fa dire le cose, né essere sé stessi fino in fondo”.
“Per me è stata una bella sfida, nuova, insolita, ma non avevo fatto i conti che donna andassi ad interpretare. Pensavo di stare su una sedia a rotelle per tutto il tempo dello spettacolo, non sarebbe stato così difficile. Niente di più sbagliato. Il dimenticarsi per due ore di metà del proprio corpo – commenta – è stata una sfida con cui mi sono dovuta confrontare, il dover ragionare solo dalla cintola in su. Oltre questo ostacolo più che altro pratico, di questo testo mi ha colpito la potenza. Sylvia è un’ebrea di Brooklyn nel 1938, affetta da questa improvvisa paralisi agli arti inferiori, ma anche ossessionata dalle notizie delle persecuzioni contro gli ebrei in Germania. Con questo personaggio per la mia interpretazione ho vinto il Premio Flaiano 2018 e ne sono orgogliosa”.
“Assolutamente no. Ma un giorno mi sono resa conto che quella donna che stavo interpretando somigliava nel modo di parlare, di ragionare, a mia madre, che purtroppo ora non c’è più. Ecco, forse, perché questo testo l’ho subito sentito familiare. Da Sylvia viene fuori la personalità di mia madre. Nello spettacolo Sylvia è una donna che vive in coppia il cui rovesciamento di ruoli è palese. Lei è l’uomo di casa”.
“Assolutamente no, per me è difficile, sono sempre insofferente. Non so stare senza far niente. Annoiarmi non mi spaventa, ma la noi deve essere uno scrigno dove poter pensare, studiare, far lavorare il cervello. Io sono sempre in azione, se le proposte non arrivano me le vado a cercare io. Mi metto sempre in gioco, mi rendo la vita complicata. Mi metto sempre alla prova, con testi ostici; la commedia la faccio in tv o al cinema”.
“Pregi? Sono un’attrice umile, ho la sindrome di Suor Angela, cioè ho il vizio di voler far andare tutti d’accordo, per creare quella giusta armonia, sono diplomatica. Difetti? Tanti, altro che tre. Sono logorroica, parlo tanto, ho poca pazienza, poco indulgente con me stessa, ad ogni cosa che mi si propone dico sempre di no, poi magari ci rifletto e do una diversa risposta, pigra ma non nel lavoro. Ne ho detti più di tre”.
“A marzo su Raiuno la fiction Vivi e lascia vivere di Pappi Corsicato, in cui interpreto il ruolo di una madre ruvida, per niente sdolcinata che deve combattere con i suoi tre figli. Una mamma che, nonostante tutto, vuole bene ai suoi figli. Per me questo è un ruolo moderno, desueto da quelli fatti finora in tv. E poi ritorno ‘buona’ nel ruolo di Suor Angela in Che Dio ci aiuti, giunta alla sua sesta serie”.
Giancarlo Leone