Intervista a Fabio Bussotti autore del giallo La ragazza di Hopper – Mincione Edizioni. Il cadavere di Nora Rednia è rinvenuto il 7 settembre nella stanza 684 dell’hotel Massimo d’Azeglio di Roma, ed è un nuovo caso per il commissario Flavio Bertone. La scena del crimine ricorda il quadro Stanza d’albergo di Edward Hopper e non è un fatto casuale. Arte e crimine coesistono nella settima indagine della serie di Bertone, creata da Fabio Bussotti, attore cinematografico e teatrale, drammaturgo con la passione per le storie gialle e poliziesche.
Fabio dal tuo esordio nel 2002, nei romanzi arte e letteratura fanno coppia, Keats, Borges, Velazquez, Borromini, Beckett e stavolta Hopper. È un tuo progetto iniziale o il binomio è diventata la tua cifra narrativa?
“Il mio primo romanzo, “L’invidia di Velázquez”, nasce come progetto per una serie televisiva di Art-Thriller. L’idea fu rifiutata da alcuni produttori perché ritenuta troppo costosa. Io non mi arresi. Pensai che mettere insieme il genere poliziesco con i misteri dell’arte fosse divertente. E così iniziai a scrivere i romanzi”.
Settima indagine per il commissario Flavio Bertone, come e in cosa si è evoluto il tuo protagonista, è diventato più introspettivo?
“Continua a essere burbero, solitario; purtroppo, non ha mai fatto veramente i conti con la sua tenace timidezza. Cerca con ogni mezzo di liberarsi dalla zavorra dei sensi di colpa. Il rapporto con le donne è aspro e tenero allo stesso tempo. Improvvisamente, nei momenti più critici delle sue avventure, Bertone si riscatta, diventa persino coraggioso. Si stupisce della sua generosità”.
Perché hai scelto il quartiere multietnico dell’Esquilino a Roma? Quanta attenzione metti nella scelta dei luoghi di ambientazione?
“Io sono umbro, ma vivo a Roma dai primi anni Ottanta; Bertone, commissario capo dell’Esquilino, è molisano per colpa di Gadda. Volevo rendere omaggio al commissario Ingravallo (anche lui molisano e commissario capo dell’Esquilino) del ‘Pasticciaccio’. In quanto ai luoghi, sì, ci faccio molta attenzione. I bar, i ristoranti, le vie e le piazze che compaiono nei romanzi sono proprio quelle reali, quelli del mio quartiere. Il ristorante di Sonia è proprio il ristorante di Sonia. E anche il menu”.
Cosa si porta a Roma delle sue origini molisane Bertone?
“Senza dubbio il carattere: schivo, riservato, timido. Poi, quando c’è da mostrare i sentimenti, l’amicizia, la lealtà, Bertone non si nasconde più. Ci mette tutto sé stesso, da molisano, semplice e di cuore”.
Recitazione e scrittura le pratichi entrambe, che attinenze trovi in queste due arti?
“Quando scrivo sono attento a non sbrodolare, a evitare le bellurie. E poi, curo molto i dialoghi, come se li dovessi mettere in scena. L’attore fa un po’ lo stesso: non deve compiacersi o allungare il brodo. C’è il pericolo costante di perdere l’attenzione dello spettatore che può addormentarsi già al primo atto. Deve poi stare attento ai dialoghi, entrare subito in sintonia con gli altri attori, rendere sempre viva la parola”.
Bertone è un solitario, applica la semplicità e la calma nelle indagini e il tempo darà risposta a tutti gli enigmi. Che rapporto ha con i suoi superiori e con i suoi ispettori Pizzo e Cacace.
“Con i superiori (il questore, il sostituto procuratore, il prefetto…) i rapporti sono quasi sempre conflittuali a causa del fastidio che Bertone avverte per ogni forma di protocollo, gerarchia, burocrazia. Con gli ispettori c’è sincera amicizia, in particolare con Pizzo, ritenuto da Bertone il miglior poliziotto della Capitale. Con la vicecommissaria Borgonovo volano le scintille. Lei ha un carattere difficile e Bertone troppa poca pazienza”.
La serialità per molti scrittori diventa un po’ una prigione che li incatena al loro protagonista. Tu che rapporto hai con Bertone ogni volta che inizi una sua nuova indagine? Hai mai pensato di scrivere anche altro di narrativa?
“La serialità non mi spaventa. Tutti i miei racconti prendono spunto da opere d’arte e la trama giallistica è solo un mezzo per intraprendere un viaggio all’interno di qualcosa di bello. Senza Bertone, penso che mi piacerebbe molto esplorare la narrativa umoristica. Così, tanto per non prendersi troppo sul serio”.
Nel libro scrivi che “Hopper cerca di capire le sue ragazze, di penetrare i loro pensieri, le paure, le angosce…”, il tuo Bertone è un duro dal cuore tenero, dalla vittima Nora a Paola, a Mafalda a Rosa che approccio ha con le donne e con la morte?
“Hopper, prima di prendere in mano il pennello, s’immergeva nella vita, nei pensieri, nelle angosce e nelle speranze delle sue figure femminili. Al termine del quadro non era quasi mai contento, sentiva che il suo lavoro riusciva a restituire solo in parte la complessità umana di quelle ragazze al confine dello spazio e del tempo. Bertone vive un’esperienza parallela: intuisce la bellezza profonda dell’essere umano, ma anche l’impossibilità di afferrarla. Il delitto, poi, è stupido e crudele perché la morte pone fine a tutte le nostre ricerche, a quel desiderio di sapere chi siamo veramente”.
Cristina Marra