Il gabbiano visto da Ennio Coltorti, opera molto contemporanea

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E’ in scena fino al 16 dicembre al Teatro Stanze Segrete di Roma, Il Gabbiano, di Anton Cechov, diretto da Ennio Coltorti, che si ritaglia anche un ruolo nel dramma, che vanta un cast di prim’ordine.

Il regista ha l’intelligenza di proporre sempre dei testi, tratti dalla letteratura, teatrale e non, la cui messinscena sembra “farsi da sé”, nel senso che riesce sempre a condurre il suo pubblico al cuore del testo teatrale o del personaggio storico che ha deciso di mettere in scena. Questo vale anche per Il Gabbiano, uno dei testi più belli e conosciuti di Cechov, un classico della letteratura, forse un po’ difficile, ma decisamente coinvolgente.

Questa volta il piccolo teatro di Coltorti, Stanze Segrete, immerge gli spettatori in un’abitazione borghese fine ‘800, dalle varie sfaccettature, perché ci viene mostrata, via via che le scene mutano, una casa di campagna di una famiglia benestante, dall’esterno del giardino dove si sviluppa il dramma inventato da Kostia, al salotto ricco di specchi e poltrone, alla sala da gioco, in un veloce mutarsi dello spazio durante i brevi intervalli musicali che dividono nettamente i momenti del dramma.

Il Gabbiano di Cechov porta lo spettatore in questo piccolo teatro a guardare un lago al tramonto, a giocare con i protagonisti a tombola in un salotto dell’800, ad essere parte di amori non corrisposti, di cuori infranti, di inadeguatezza. Nonostante siano passati più di cento anni dalla prima scrittura dell’opera, questa è più che contemporanea. Si parla di figli che non riescono ad avere un dialogo vero e proprio con i genitori, di giovani che non riescono a trovare la loro strada, di amanti senza speranza. Sembra un quadretto dei giorni nostri.

 

 

I personaggi del dramma, interpretati da dieci attori ben affiatati e inseriti in un perfetto meccanismo ad orologeria, che recitano nello spazio esiguo del teatro, si danno il cambio con vera maestria e sono ben compenetrati verso il richiamo dell’esistenza che ad ognuno offre la sua parte di illusione e di infelicità.

 

 

A cominciare dal Dottore, interpretato da Ennio Coltorti, osservatore distaccato ma partecipe dei vari momenti dove è confidente o testimone della vicenda. Egli sembra guidare e seguire l’ineluttabile svolgersi del dramma, fino al suicidio che pone fine alla sua vita e che sarà lui a gestire. Il suo è un ruolo minore al quale regala una piccola ambiguità: uomo sensibile e comprensivo, ma indifferente quando si tratta di riconoscere i propri affetti.

 

Patrizia Bellucci, nel ruolo di Irina, passa senza problemi dall’algida severità della diva che non sopporta le velleità artistiche del figlio, alla fragilità con la quale viene a scoprire che il suo amante, interpretato da un troppo ingessato, ironico e scettico Marco Mete, si è innamorato di una ragazza molto più giovane.

 

Matteo Fasanella interpreta “il figlio della divaKostia, che si vede rubare la sua amata Nina dall’amante della madre. Del personaggio mostra un ragazzo viziato da una madre possessiva, poi maturato dalla sofferenza, alla ricerca di un’espressione letteraria al suo dolore di vivere. Forte il personaggio interpretato da Virna Zorzan, Masha, così come ottima è la Nina di Giulia Shou. Un discorso a parte merita Pietro Biondi, nel ruolo emblematico di Sorin, Consigliere di Stato.

Il regista Ennio Coltorti dirige con sapiente maestria gli attori, seppur limitati sono gli spazi, e sa palesare l’attualità del testo per gli argomenti trattati, tanto che Il Gabbiano di Cechov con la sua messinscena diventa piacevole per gli amanti della letteratura e dell’autore russo, ma anche per i non cultori del genere che trovano un’ottima occasione per avvicinarvisi senza problemi. Da vedere.

Giancarlo Leone

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