Hammamet di Gianni Amelio

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L’uomo in caftano bianco che si aggira come un leone in gabbia tra le palme del giardino della sua villa è il Presidente. In Hammamet il nuovo film di Gianni Amelio si raccontano gli ultimi mesi di vita di Bettino Craxi anche se il leader socialista non viene mai chiamato per nome.

Pochi dubbi restano però quando il film, dopo una breve scena iniziale, presenta il 45esimo congresso del PSI e il suo capo carismatico sul palco ad arringare il pubblico adorante mentre la sua immagine viene replicata sullo schermo gigante, emblematicamente a forma di triangolo come veniva rappresentato l’occhio di Dio.

È questo il primo incontro del pubblico con il protagonista del film e (soprattutto) con la straordinaria interpretazione di Pierfrancesco Favino, se fosse nato negli Stati Uniti il nostro Picchio avrebbe già un Oscar sulla mensola del salotto di casa. Di sicuro si candiderebbe riceverlo per questo Bettino Craxi che cattura affascina e stupisce di minuto in minuto di sequenza in sequenza. L’abilità di chi nelle cinque ore di trucco giornaliero ha trasformato Favino in Craxi non sarebbe stata sufficiente, se non ci fosse stata l’adesione totale dell’attore alla persona e al personaggio.

Nella voce, nella gestualità, nei sorrisi accennati, nel corpo che si muove e si plasma all’oltraggio della malattia o alla tracotanza del potere: perduto, difeso, rivissuto, di certo rimpianto. C’è una scena in cui un Craxi divorato dal diabete e dolorante sul letto di un ospedale tunisino chiede rabbiosamente alla figlia di allontanare fotografi e giornalisti “non c’è nessuno” risponde lei.

Che Dio benedica Favino – dice Amelio durante la conferenza stampa di presentazione -senza di lui non lo avrei fatto, sfido chiunque a trovare un altro attore che possa fare il Presidente come lui“.

E prosegue: “io non considero Craxi una star ma un politico su cui è calato da decenni un ingiusto, assordante silenzio. Non volevo un film su Craxi degli anni ottanta ma il racconto degli ultimi 6 /7 mesi della sua vita. La lunga agonia verso la morte di un uomo di potere che il potere lo ha perso. Il passato del Presidente ritorna tra gli ulivi delle colline di Hammamet dove lui non è un recluso ma coltiva passioni e desideri. Se qualcuno gli avesse dato la possibilità di essere operato altrove, chissà, forse avrebbe potuto salvarsi. Invece macerato in una specie di autodistruzione è andato verso la morte“. Che sopraggiunge il 19 gennaio del 2000 dopo che anche i medici del San Raffaele venuti a visitarlo, si erano rifiutati di operare coi macchinari obsoleti dell’ospedale di Tunisi.

 

Una gran parte del film è stato girato nella villa di Craxi ad Hammamet con il consenso della famiglia anche se Amelio ha scelto di non fare mai i nomi o di modificarli come nel caso della figlia Stefania che nel film viene chiamata Anita in omaggio alla grande passione che è Craxi nutriva per Garibaldi.

I nomi? – dice il regista- troppo conosciuti, troppo ovvi. E poi questo è un film non è cronaca, non ci sono giudizi personali o politici. E un film non deve dare risposte ma fare domande. L’Orgoglio forse ha perso Craxi – continua Amelio – la sua ostinazione a credere di essere nel giusto e a voler essere giudicato dal Parlamento e non in tribunale. Craxi di fatto non era né un latitante né un esule. Su di lui pesavano condanne passate in giudicato. Ma d’altra parte tutti sapevano dove fosse, di lui si conosceva anche il numero di telefono e veniva contattato da giornalisti e amici, quelli rimasti, che andavano a trovarlo“.

Tornando all’attore che di fatto reso possibile questo film, Pierfrancesco Favino: “Conoscevo Craxi come uomo politico, le sue vicende giudiziarie. Ma non sapevo del suo privato, non conoscevo l’uomo. Come attore la sola cosa che posso fare è cercare di comprendere il personaggio, in questo caso il suo punto di vista. Craxi aveva un forte senso di paternità verso la sua famiglia ma anche nei confronti del suo Paese. Credo che il Potere che aveva abbia finito per lasciarlo molto solo. Non è mio compito giudicare se abbia commesso degli errori ma ho empatizzato con molti aspetti della sua umanità“.

Quanto al mirabile trucco: “a volte è la chiave per un’interpretazione anche se poi devi dimenticare di averlo. Seguivo ogni giorno una specie di rituale e dopo le 5 ore e mezza di trucco e aver messo le sopracciglia e gli occhiali era come attraversare una parte di me che mi consentiva un rapporto con qualcosa di intimo, anche personale, che spesso hai paura di toccare”.

Ludovica Mariani

 

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