Attacco a Mumbai

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A dieci anni dai sanguinosi attentati che, a partire dal 26 novembre 2008, trasformarono per tre giorni la città di Mumbai in un campo di battaglia, il cinema prova a dare una rappresentazione di quei drammatici eventi. Lo fa, in questo Attacco a Mumbai – Una vera storia di coraggio, prendendo l’emblematica location dell’hotel Taj Mahal – tra gli alberghi più esclusivi della metropoli indiana -, e riproducendo la spietata lotta per la sopravvivenza che lì si consumò, con i terroristi asserragliati insieme a un’umanità composta di ospiti, personale e passanti in fuga che avevano trovato rifugio nella struttura.

Il film incrocia le storie di Arjun, giovane cuoco trovatosi a lavorare nel ristorante dell’hotel al momento dell’irruzione dei terroristi; del suo burbero ma generoso principale, deciso a proteggere con ogni mezzo l’incolumità degli ospiti; della coppia formata da David e Zhara, che, insieme alla baby sitter al seguito, cercano in tutti i modi di proteggere il figlio di pochi mesi; di un uomo d’affari russo apparentemente meschino e insensibile. Quando i terroristi riescono a penetrare nell’hotel, mescolati alla gente in fuga per le strade, gli uomini, armati solo del proprio coraggio, cercano in tutti i modi di contrastarne la fredda volontà di sterminio.

È il realismo, la cifra stilistica predominante di Attacco a Mumbai: un realismo crudo e teso, che chiama lo spettatore a un coinvolgimento quasi fisico negli eventi mostrati. Dopo la parte introduttiva, che mostra il background dei vari personaggi – alternati alla preparazione degli attacchi da parte dei terroristi – il film si articola in un lungo confronto all’interno dell’hotel Taj; questo vede contrapposti gli attentatori, armati di artiglieria pesante e decisi a compiere una strage, e i terrorizzati civili presenti nella struttura, braccati e impotenti.

Si avverte in modo quasi palpabile, il senso di terrore e minaccia costante che attanaglia ogni singolo personaggio del film, il suo essere potenziale bersaglio mobile per le armi automatiche dei terroristi, il sentore di morte che suggerisce come ogni attimo possa essere potenzialmente l’ultimo. I proiettili, quando vanno a segno – e ciò accade spesso – uccidono invariabilmente, e le prove della mattanza sono tutte lì: nei cadaveri che disseminano i corridoi e la hall dell’albergo, nel rumore assordante delle sventagliate di mitra, nella spietata determinazione degli attentatori.

Una regia pregevole, perfetta nel mantenere alta la tensione per tutte le due ore di durata del film, non si accompagna in Attacco a Mumbai a una scrittura della stessa qualità: i caratteri dei protagonisti, a partire dal giovane cuoco interpretato da Dev Patel, sono schematici e piuttosto prevedibili nella loro evoluzione, puramente accessori alla ben oliata macchina cinematografica messa in campo dal regista. Costruendo una serie di figure fittizie, solo liberamente ispirate ai veri protagonisti degli eventi, la sceneggiatura sembra puntare a sottolineare – in modo un po’ smaccato e didascalico – un supposto eroismo del quotidiano.

È in fondo la concezione di base, discutibile quanto coerente, il vero problema di questo Attacco a Mumbai: una celebrazione retorica di un simbolo, culla ed emblema della rigida società classista dell’India urbana. Un’operazione un po’ tronfia, a ricordare una “vittoria” ottenuta con un grave tributo di sangue; sovrapposta, nella realtà, all’apparente sconfitta dell’Isis in Medio Oriente – il periodo di uscita del film non è certo casuale. Due industrie cinematografiche, quella americana e quella di Bollywood, si trovano così concordi nell’intento di offrire una rappresentazione della realtà di comodo, politicamente tutt’altro che disinteressata.

Marco Minniti

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