Il viaggio di Yao di Philippe Godeau

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Star del cinema francese con più di una “puntata” a Hollywood, conquistatosi fama e riconoscibilità internazionale col suo ruolo in Quasi amici – Intouchables di Èrik Toledano e Olivier Nakache, Omar Sy interpreta in questo film il ruolo di una star del cinema sradicata, imbarcatasi casualmente in un viaggio che diviene riscoperta e valorizzazione delle sue radici. Un ruolo con più di un riferimento autobiografico, quello che l’attore interpreta in questo Il viaggio di Yao, per un progetto che vede, non a caso, lo stesso Sy nel ruolo di produttore esecutivo.

Sy è qui Seydou Tall, attore francese di origini senegalesi, recatosi nel paese di origine della famiglia per presentare un suo libro autobiografico. Il giovane Yao, tredici anni, appena saputo che Seydou sta per giungere nel suo paese, non si fa sfuggire l’occasione; il ragazzino scappa di casa e si imbarca in un lungo viaggio, arrivando all’albergo di Seydou per reclamare il suo autografo. L’attore, colpito dal coraggio e dalla tenacia del ragazzino, decide così di abbandonare il tour promozionale per riaccompagnarlo a casa: il viaggio insieme creerà un’insospettabile amicizia.

Ha un passo e un’atmosfera diversi, Il viaggio di Yao, rispetto alle opere ovattate e un po’ ruffiane che compongono l’odierna commedia mainstream d’oltralpe; fin dal montaggio che mostra le esistenze parallele dei due protagonisti, i differenti contesti di vita e le sfide che ognuno deve affrontare, il film di Philippe Godeau mette il coltello nella piaga delle conseguenze (di lungo corso) del colonialismo, si smarca da qualsiasi tentazione sociologica spiccia, costruisce lo spaesamento di un personaggio che letteralmente fa un viaggio iniziatico nelle proprie origini.

Prende, e riutilizza senza timore, tutti gli stereotipi del road movie, il film di Godeau, si prende le sue pause contemplative – utilizzando gli “alieni” paesaggi naturali del Senegal -, non nasconde le sue parentele con altre opere, recenti o meno, che mettono in scena l’amicizia tra un ragazzino e un adulto (viene in mente L’estate di Kikujiro di Takeshi Kitano). Il personaggio che realmente ha bisogno di crescere, però, è qui quello interpretato da Omar Sy, pervaso da un pensiero occidentale – per esteso: colonialista – che lo rende, per usare le parole di Yao, “nero fuori e bianco dentro”.

Il viaggio attraverso il territorio senegalese diviene così, per il protagonista adulto, occasione di contatto e simbiosi con una cultura vitale, più aperta e cosmopolita di quanto il mainstream possa far credere – incarnata in questo dall’onnivora figura di Yao, che legge Jules Verne e vuole viaggiare verso l’Europa. Un contatto che, per una volta, il personaggio di Seydou ha l’occasione di sperimentare in prima persona, e che lo porta fin nel cuore della sua città d’origine, dove scopre esserci un’eredità – personale e collettiva – di storie e cultura da non disperdere.

Narrato con un tono da commedia agrodolce, intelligentemente scevro da sentimentalismi – ma anche da toni fintamente barricaderi -, Il viaggio di Yao è un esempio di come una commedia popolare, illuminata dalla presenza di una star, possa dire tanto sul nostro tempo e sulle contraddizioni di un colonialismo culturale che il nuovo millennio ha solo, abilmente, celato. Lo fa, il film di Philippe Godeau, mettendo in scena una storia piccola, ma credibile e ricca di sostanza, capace di farsi emblema di un multiculturalismo vero, per una volta non esteriore e non ricattatorio.

Marco Minniti

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