Book Club di Bill Holderman

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Operazione che si muove tra la riflessione post-femminista e quella sull’invecchiamento, reunion di star che si confrontano col tempo che passa – e col conseguente cambiamento delle mode – questo Book Club – Tutto può succedere segna l’esordio dietro la macchina da presa di Bill Holderman, già produttore della maggior parte dei film recenti di Robert Redford – ultimo, l’eccellente Old Man & The Gun. Un esordio che punta sull’appeal del cast per mettere in scena una commedia romantica che, anziché focalizzarsi sul mondo giovanile, mette in scena l’inizio della terza età.

La trama è incentrata su quattro donne – interpretate rispettivamente da Diane Keaton, Jane Fonda, Candice Bergen e Mary Steenburgen – che da trent’anni si incontrano periodicamente per discutere di un libro. La scelta, stavolta, è ricaduta su Cinquanta sfumature di grigio. Avendo tutte alle spalle un passato sentimentale difficile, un lutto, o un matrimonio che langue – le quattro amiche decidono di usare il libro per movimentare la loro vita. I risultati saranno vari, a volte sorprendenti: ma le quattro scopriranno soprattutto che rimettersi in gioco, a qualsiasi età, è tutt’altro che semplice.

Se l’idea alla base di Book Club – Tutto può succedere è tutt’altro che disprezzabile – una riflessione sullo scorrere del tempo che coinvolga “l’altra metà del cielo”, con le sue specifiche problematiche – i risultati del film non si distaccano purtroppo da un’aurea mediocritas che sfrutta nel modo più risaputo tematiche e interpreti. La voice over di Diane Keaton, corredata dall’immancabile repertorio di foto d’epoca, introduce la storia delle quattro coi rispettivi background; ma di questi ultimi si perdono presto le tracce nella memoria, tanto le storie personali risultano poco integrate col tessuto narrativo del film.

L’umorismo che il film mette in scena è spesso di grana grossa – ne sono esempi una triviale battuta su un documentario di Werner Herzog, o le modalità del primo incontro tra il personaggio della Keaton e il suo nuovo partner; ci si limita perlopiù alle scontate gag innestate dall’età delle protagoniste e dalle situazioni con cui queste vengono a contatto. In questo senso, è significativo lo scarso approfondimento dei personaggi di contorno – i figli della stessa Diane interpretata dalla Keaton – che rendono da par loro meno credibili gli sviluppi che ne conseguono.

Superficialmente, il film di Bill Holderman potrebbe essere letto come una riflessione su un femminismo distorto che ha esportato un modello di femminilità aggressivo e di facciata, che finisce per perdere forza – e credibilità – col trascorre degli anni. In fondo, di tutte le situazioni messe in scena, quella che viene risolta più facilmente è quella più tradizionale, familiare, che vede coinvolti il personaggio interpretato dalla Steenburgen e suo marito col volto di Craig T. Nelson; basta un ballo sulle note di I’d Do Anything for Love di Meat Loaf per risistemare le cose.

La stessa scelta e l’utilizzo della colonna sonora, composta prevalentemente da composizioni dei decenni passati, risultano in sé ruffiani e poco ragionati; sembra quasi che, nel momento in cui la regia non sappia gestire al meglio una sequenza o un dialogo, si corra ai ripari utilizzando il commento sonoro – diegetico e non. Il tutto risulta posticcio, stereotipato malgrado la sua volontà teorica di ridere sugli stereotipi, inconsapevolmente “tradizionalista” come la trilogia di E.L. James da cui la storia prende le mosse: non è un caso che la stessa scrittrice compaia qui in un cameo, ad attestare una sostanziale – e poco entusiasmante – sensibilità comune.

Marco Minniti

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