Noi di Jordan Peele

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Escono in sala, proprio in questi giorni, due film che testimoniano entrambi il rinnovato interesse del cinema americano per un approccio “politico” alla materia del fantastico. Il primo, arrivato quasi in sordina, è il fantascientifico Captive State di Rupert Wyatt; il secondo, più atteso e chiacchierato, questo Noi, nuovo horror firmato da Jordan Peele. Un’opera seconda, quella del regista, per cui c’era una giustificata curiosità, visti i consensi – coronati dall’Oscar per la sceneggiatura – per il suo esordio del 2017, il sorprendente Scappa – Get Out.

L’azione, qui, trova il suo prologo nel 1986, quando la piccola Adelaide, in vacanza coi suoi a Santa Cruz, si perde in un labirinto di specchi all’interno di un parco di divertimenti; qui, la bambina si trova faccia a faccia con una figura identica a sé, che però forse non è un riflesso. Oltre trent’anni dopo, Adelaide torna a Santa Cruz col marito e i due figli, per una vacanza presso la casa di famiglia; qui, i quattro vengono aggrediti di notte da quattro misteriosi individui, loro copie perfette. Adelaide, Gabe e i loro figli si trovano così in una spietata lotta per la sopravvivenza, rendendosi conto che il fenomeno dei “doppi” violenti ha colpito tutti gli Stati Uniti.

Dopo il successo del suo primo film, evita di sedersi sugli allori e replicare una formula preconfezionata, mantenendo tuttavia la coerenza della sua riflessione sul fantastico, e alzando anzi il tiro del suo discorso. Il Noi del titolo non è qui rivolto, come in Scappa – Get out, contro un “loro” delimitato e identificabile; non a caso, il titolo originale Us aveva una doppia valenza di pronome personale e sigla, a indicare l’intero corpo sociale degli Stati Uniti. I doppelganger si rivelano presto copie con più punti di contatto con gli originali di quanto non piacerebbe ammettere: “siamo americani”, afferma con ironica fierezza una di loro.

C’è lo stile di vita borghese, nel mirino di Jordan Peele, la vacuità di un sogno americano livellato e obnubilante che ha radici antiche; non a caso, il regista inserisce il suo prologo nel pieno dell’edonismo anni ‘80, senza tuttavia nulla concedere a qualsivoglia gusto vintage. È anzi iconoclasta, l’approccio di Peele – e la sua radicalità diviene evidente con l’evolvere della trama -, demolisce i feticci del passato e del presente, sbeffeggia la vacuità declamatoria di iniziative quali l’Hands Across America – che apre il film -, mette in scena una rivolta di esclusi che ci riflettono in specchi ben poco deformanti.

Sbaglia, chi vede in questo Noi una semplice allegoria orrorifica del trumpismo, in quanto il discorso di Peele è insieme più ampio e più profondo: l’America, sembra dirci il regista, proprio sul sangue si è fondata – rosso come le divise dei doppelganger; e dove non ha usato la violenza contro le culture “altre”, ha proceduto all’assimilazione forzata, all’inculcazione scientifica del suo modello sociale – anche attraverso la diffusione dei feticci della cultura di massa – alla creazione di replicanti in serie, allineati come conigli da laboratorio. Lo scardinamento di un sistema non passa attraverso velleità riformatrici, ma piuttosto si produce con la rivoluzione.

Nel portare avanti un discorso così radicale, il regista è consapevole tanto del gusto moderno – espresso in un continuo ammiccare autoironico allo spettatore e ai suoi punti di riferimento culturali – quanto dei suoi precedenti illustri; lo fa citando senza timori reverenziali Shining e Funny Games, giocando con l’home invasion e lo zombie movie, rovesciando continuamente le premesse dei filoni e irridendo le aspettative. Il risultato, al netto di un flashback che ha l’unico torto di spiegare troppo – unica piccola concessione a una perniciosa tendenza del moderno mainstream – è prezioso e limpido nei suoi conseguimenti, testimonianza di un nuovo autore dall’indiscutibile spessore.

Marco Minniti

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