Il professore e il pazzo

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Viene da lontano, il progetto di questo Il professore e il pazzo, da un’idea che Mel Gibson aveva avuto già alla fine degli anni ‘90: quella, cioè, di adattare il libro L’assassino più colto del mondo, scritto da Simon Winchester, che narrava della stesura dell’Oxford English Dictionary, del suo creatore Sir James Murray, e del suo più noto collaboratore, il chirurgo condannato per omicidio William Chester Minor. Un progetto che, passato di mano in mano, arriva ora sullo schermo, con l’attore americano nel ruolo del protagonista, e Sean Penn in quello del suo collaboratore e amico.

Non c’è più Gibson, alla guida del progetto, che vede in cabina di regia P.B. Shemran – già collaboratore dell’attore/regista in Apocalypto – con una sceneggiatura co-firmata dallo scrittore Todd Komarnicki. Eppure, il taglio generale di questo Il professore e il pazzo, le sue soluzioni di regia, il senso etico che pervade e impregna la storia in tutte le sue due ore di durata, parlano chiaramente della presenza del regista de La battaglia di Hackshaw Ridge e della sua visione del cinema. Una visione che ha le sue peculiarità – dal nostro punto di vista – sia positive che negative.

Si rinviene in tutte le principali svolte di trama, l’approccio al racconto fideistico e quasi messianico del protagonista, nascosto sotto una regia dal taglio classicamente hollywoodiano – anche laddove il film è in realtà una co-produzione statunitense e irlandese – e un taglio da biopic che cerca di ricostruire un’epoca attraverso due suoi singolari testimoni. Istanze, queste, che nel film convivono con l’afflato trascendente, la spinta dialettica colpa/redenzione presente nel personaggio interpretato da Penn, la sua schizofrenia che si ammanta inevitabilmente di un alone spirituale e metafisico.

Lo scavare della sceneggiatura nella mente di Minor, assassino per sbaglio e vittima di incorporei demoni, prende così la strada dell’esplorazione dell’espiazione, dell’esplicitazione di un doloroso percorso salvifico che da subito – anche attraverso i sempre più frequenti incontri con la vedova dell’uomo ucciso – viene posto come l’istanza che più di tutte caratterizza il personaggio. I fantasmi di una mente deragliata, slegati dal suo sistema di valori, restano in secondo piano, così come debole e poco incisiva è la critica – evidente solo nella parte finale – al sistema britannico delle cure psichiatriche.

Visivamente sontuoso e ben recitato – alla prova dei due protagonisti si aggiunge quella di Natalie Dormer nei panni della vedova – Il professore e il pazzo vive su due segmenti che, malgrado gli sforzi della sceneggiatura, restano indipendenti e poco integrati tra loro: quello, cioè, della stesura del dizionario, risultato della personalità ambiziosa e visionaria di Murray – con contorno di contrasti con l’establishment accademico – e quello della malattia mentale di Minor, contrassegnato dall’amicizia con l’accademico, e dalla sempre maggior empatia con la vedova. Due linee narrative che non raggiungono mai, nella storia, una vera composizione.

Comunque ben confezionato, con due prove d’attori che lo proiettano – anche – in ottica-Academy per il prossimo anno, Il professore e il pazzo trova quindi i suoi limiti in una scarsa compattezza narrativa, unitamente a un approccio melodrammatico che, sotto il peso dell’influenza del suo ingombrante protagonista, rischia sempre di far deragliare il tutto verso il kitsch involontario. Resta l’interesse suscitato dal soggetto, che illumina una vicenda culturale e umana poco nota, e le suggestioni di una storia che parla – anche – di un approccio verso la malattia mentale che la società occidentale non si è lasciata ancora completamente alle spalle.

Marco Minniti

 

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