Erano tutti miei figli

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Il  Teatro Quirino Vittorio Gassman ha ospitato, ma purtroppo soltanto per pochi giorni, un dramma scritto da Arthur Miller e del quale non c’è bisogno di sottolineare e neppure di evidenziare la bellezza del testo, un testo che l’autore compose con il preciso e determinato intento di infrangere gli stereotipi di “famiglia”, “successo”, “benessere” attribuendo al protagonista della vicenda, Joe Keller, la figura di una vera e propria minaccia sociale.

Ciò non tanto a cagione dei reati dei quali si macchia nell’esercizio della sua professione di trafficante di armi da guerra non proprio perfettamente funzionanti, ma in quanto persona che sostiene fortemente l’idea che un grado, seppur lieve, di irregolarità nel commercio ( e nella vita ) sia da ritenersi necessario: non a caso il traffico disonesto causa varie morti tra i quali, forse, anche un figlio di Keller stesso; spudoratamente ed in forza delle sue teorie l’industriale incolpa delle morti il suo socio Steve.

 

Monumento alla figura di madre, in questa torbida storia, è Kate, la moglie di Joe, una Anna Teresa Rossini attrice monumentale, una figura statuaria, il personaggio più complesso nella complessità del dramma che Giuseppe Dipasquale dirige egregiamente conscio che i due attori ai quali ha affidato le parti principali sono entrambi eccezionali, grandiosi, sensibili, in una parola “umani”, autentici.

 

 

Joe Keller è interpretato da un grande Mariano Rigillo, un attore che sa infondere al suo personaggio la forza dell’irregolarità sociale, della vita in eterno subbuglio ma apparentemente corretta, e che riesce ad evidenziare l’uomo-macchina in forma sacramentale eppure sacrilega, evidenziando la mancanza di ogni scrupolo, un uomo senza rimorsi perché certo, dentro di se, di aver agito bene non volendosi rendere conto del male che fa alla sua famiglia, a se stesso, alla società.

Occorre tornare su Anna Tersa Rossini: interpreta con una forza unica il ruolo di madre che aspetta il ritorno del figlio Larry scomparso in guerra da tre anni, interpreta il ruolo di una moglie che vorrebbe salvaguardare la sua famiglia dall’intreccio di interessi e di amori, che complicano ogni momento di più il dramma che ella, da madre, vive non soltanto nella speranza del ritorno del figlio ma anche nell’assistere all’interesse dell’altro suo figlio proprio per la fidanzata dello scomparso Larry. Assiste disperata alla rivelazione di George (fratello della fidanzata di Larry) che spiattella all’altro figlio di Joe e di Kate la vera colpa del padre, nel disastro conseguente alla vendita di pezzi di aereo, difettosi e tenta comunque di salvaguardare la famiglia, anche sommessamente indicando ai figli di tacere sul passato.

Per quanto inerente la interpretazione di Mariano Rigillo occorre prendere atto che è quasi una rivelazione, ma una rivelazione, umanamente parlando, di un uomo che caparbiamente non vuole rassegnarsi alla verità; soltanto quando gli vengono fornite le prove della sua colpevolezza sa rendersi conto, e Regillo lo fa magistralmente e con ogni possibile audacia interpretativa, dimostrando di ben comprendere le sue colpe: è il vero autore della morte del figlio e di altri commilitoni e soltanto allora, realizzando che i caduti tutti “erano tutti miei figli” compie un atto di giustizia dichiarando di volersi costituire. Ma uscendo di scena, il sipario si chiude su un colpo d’arma da fuoco.

La regia di Giuseppe Dipasquale è esattamente quella che avrebbe desiderato Miller, semplice ed efficace, equilibrata, senza particolari modalità se non quelle le più adatte per gestire una compagnia che, oltre al figlio di Mariano Rigillo, Ruben, vanta una compagine di assoluto rispetto da Silvia Siravo a Liliana Lo Furno, da Barbara Gallo ad Enzo Gambino, non dimenticando Enzo Musumeci e le scene perfette di Antonio Fiorentino nonché i costumi di Silvia Polidori, compagnia che nell’insieme riesce perfettamente a rendere l’idea di un dramma sociale, scritto negli anni a cavallo tra il 1940 ed il 1950 e che ha per oggetto la assurdità di una azione che intende sostenere come l’illegalità sia alla fonte del successo economico. Proprio come ai tempi correnti.

Andrea Gentili

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